martedì 15 dicembre 2020

La bilancia

L’ho vista mentre era seduta al bar, in un tavolino all’aperto. L’aria era cristallina e il suo caffè si era freddato troppo in fretta e non fumava più. Gli altri clienti, seduti a pochi passi da lei, la ignoravano come era giusto che fosse. Qualsiasi cosa di quella donna era perfettamente ordinaria, dalle scarpe alla bustina di zucchero bianco poggiata sul sottobicchiere con sopra il cucchiaino appena succhiato. Perfettamente “dimenticabile”. Io ero lì, e tra uno sguardo al cellulare e un orecchio alle chiacchiere che mi circondavano, aspettavo una telefonata che speravo cancellasse l’appuntamento al quale non avevo alcuna voglia di andare. Non riuscivo a non provare interesse per quello sguardo vuoto, fisso, quasi vitreo. Dall’età avrebbe potuto essere mia madre quando io avevo 16 anni, quindi una mia coetanea; quel pensiero mi turbò decisamente: mia madre alla mia età aveva un figlio di 16 anni e io invece mi sentivo ancora come un figlio di 16 anni. Che cos’è che ci invecchia, gli anni o le esperienze? E a quanta “esperienza” ammonta avere un figlio?! Misi allora tutta la mia vita su di un enorme bilancia, pensando a tutto quello che avevo fatto, vissuto, visto, ai viaggi intrapresi, le sfide professionali, i guai…niente di tutto questo sarebbe potuto succedere se avessi avuto un figlio all’età della mia mamma; eppure lo sguardo di quella donna, lo sguardo di mia madre (che ricordo perfettamente) quando aveva la mia età, sembravano essere più profondi di quanto non fosse il mio ogni mattina davanti allo specchio. Li avrei scambiati? Loro lo scambierebbero con il mio? Quasi stavo per alzarmi per andarglielo a chiedere. Continuai a giocherellare col cellulare, ma sempre con un orecchio teso agli affari degli altri e la coda dell’occhio intenta ad investigare la figura di donna “standard” che era riuscita a farmi sollevare più dubbi sulla mia persona, di quanti non fosse riuscita a fare l’ultima fregatura che avevo preso. Finalmente la telefonata che stavo aspettando arrivò, esattamente tra il secondo caffè del tavolo infondo a destra e la mancia lasciata sul tavolino dei ragazzi accanto a me.

<<Si, ciao caro dimmi tutto…a non riesci?! Cavolo, no no, non fa nulla, si ero già qui ma tanto sarei comunque dovuto passare in città quindi non c’è problema…certo, capisco. Ci vediamo settimana prossima dai così siamo più tranquilli entrambi. Si, ciao ciao>>

“Che culo, avevo zero voglia” pensai, e in quel momento, mentre stavo per godermi l’idea della futura ora di libertà ritrovata, arrivò un ragazzo. Al tavolo della donna dico, arrivò un ragazzetto che avrà avuto forse 18 anni e…cazzo le piantò un bacio con la lingua che neanche mi ricordo più come si fa a darli in quel modo! Hai capito la mammina?! Col cavolo che quella aveva un figlio dell’età mia a 16 anni, o al massimo, se lo aveva, si trombava pure un suo amico e a quel punto, tutto fu immediatamente chiaro. La profondità del suo sguardo, la profondità dello sguardo di una persona, probabilmente ha la sua origine più nell’anima di chi lo osserva, di chi ne percepisce i pensieri, le paure, i fremiti. La profondità che stavo scorgendo in quell’attesa, non era dettata da ciò che la donna trasmetteva realmente (tant’è che nessuno la degnò di uno sguardo), ma da quello che la mia sensibilità era stata in grado di carpire suo malgrado. Per tutti gli altri era solo una qualunque, con un caffè, che stava aspettando “il can che fugge e la pecora che pascola” e probabilmente era proprio così. Ero io ad averle dato quei colori, quelle sfumature che probabilmente i suoi occhi davanti allo specchio non avrebbero mai scorto.

Due euro sul tavolino e il resto mancia. Con le mani in tasca e la soddisfazione di una vita piena che non mi ha tolto l’istinto di un sedicenne, mi alzai e tra me e me pensai: “Vi aspetta una bel pomeriggio... godetevelo!”.